L’autore: Fernando Ladiana
Fernando Ladiana, giornalista e insegnante, nato e vissuto a Massafra, è stato Ispettore Onorario della Sovrintendenza ai Beni Artistici, Ambientali, Storici, Archeologici ed Archivistici, nonché autore di: Eredi senza storia, Massafra e la Grande guerra, La pietra della fame, Il trionfo del Carnevale, la guida di Massafra.
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File e tesse la Quarantèle
Doppe ch’è muorte Carnevale
Pe Campè li sette file
pure de notte tesse e fileNu taradduzze la settemane
sazzie tutte li cristiane
disce ‘zi prevete chiù muorte ca mbise
tuzze forte e ‘nghiane suseLa mascenele aggire atturne
la chenocchie ‘ngrosse allu fuse
chiange e suspire la Quarantele
pe la morte di CarnevaleA lengua strascenute
cercate perdone a Dije
attachete ‘nganne na psare
e gire ngunicchiete li sette vie.
A mezzanotte il pupazzo di paglia veniva bruciato in piazza o lanciato dal ponte nella gravina, mentre il sagrestano della vicina chiesa di Santa Maria dava alcuni lugubri, rintocchi alla campana maggiore, quasi per dire “andate, il Carnevale è finito!”
La Tradizione
“Pasqua e Natale addò t’acchie, Carnevale fall’a caste”
A Massafra questo adagio è sempre stato rispettato, tanto che, nei tempi passati, i nostri contadini, che una volta trascorrevano in Calabria e in Lucania i mesi invernali per la potatura degli ulivi, ritornavano in famiglia, concedendosi una pausa di almeno tre giorni.
La leggenda del Pastore di Massafra
Una leggenda popolare, legata alle origini del Carnevale nostrano, ci racconta di un pastore che non poteva mai allontanarsi dalla masseria, dove faceva il guardiano del gregge. Di giorno era sempre al pascolo e di notte dormiva con le bestie, disteso su un sacco di paglia. Per lui non esistevano né ferie, né giornate di riposo.
Una volta il padrone, per una strana generosità, decise di mandarlo a casa per la festa del Carnevale. La strada era lunga e il poveraccio dovette farla a piedi, affrontando i rigori di un inverno molto rigido e nevoso. Portava una vecchia bisaccia a tracolla con qualche chilo di fave, un sacchetto di grano, un fiasco d’olio e di vino, che rappresentavano la rimanenza del suo salario, “rimesso” in natura, secondo l’uso dell’epoca. Cammin facendo, incontrò un uomo vestito anch’egli da pastore, con barba e capelli lunghi.
“Dove vai?” Chiese al pastore.
E questi “A casa, per la festa di Carnevale”
“Ma oggi è lunedì e la festa è già passata”
“Non importa” rispose il pastore “per me basta la gioia di rivedere mia moglie, mia madre, i figli, il mio paese”.
“Va, va” disse lo sconosciuto, che la leggenda identifica in Gesù di Nazaret, “vai a goderti la famiglia, ma anche la festa di Carnevale”.
Arrivato in paese, il pastore seppe che il Carnevale era stato allungato di due giorni e che per il martedì si stavano facendo grandi preparativi per festeggiare degnamente il “Santo” Carnevale. Il pastore si divertì come non mai, ma tornò subito dopo al suo lavoro di sempre, con il ricordo delle grida e del frastuono delle maschere.
La personificazioni del Carnevale, nelle raffigurazioni rituali massafresi sono un beone godereccio e sua moglie in gramaglie, rappresentati anche con fantocci.
L’uomo è realizzato con un pupazzo di paglia con cappello da mietitore, pipa di canna e fornellino di creta e fiasco di vino. Nei tempi passati era sistemato su una sedia da cucina sul cornicione della casa, specie se in corrispondenza di un quadrivio o di una “vicinanza”.
La Quarantana è ritenuta la moglie di Carnevale e rappresenta in pratica la Quaresima. è una pupattola altra non più di 50 cm., in atteggiamento di filatrice, con fuso ed arcolaio. Il mercoledì delle Ceneri, veniva sospesa tra una casa e l’altra o sistemata vicino ai comignoli e bene in vista sulle “lamie” con accanto una fascina di legno e sette “tarallucci”, simboleggianti le sette settimane della Quaresima.
A differenza di molte altre zone ( anche meridionali ), Carnevale non subiva a Massafra nessun “processo”, nè veniva ucciso, ma moriva per l’abbondante mangiata, che gli provocava evidentemente un’indigestione.
Una delle più antiche rappresentazioni popolari di Carnevale a Massafra era la “Processione di sant’Accione”, organizzata dai felpaioli (tessitori di felpa), alla fine del secolo scorso che con altre manifestazioni del Carnevale animavano quei giorni.
Quella dei I Fornai, che ogni anno, sempre la sera della domenica, verso il tardi, portando in giro su una bara a spalla, oppure su un carro, con sopra Carnevale morto, un grosso fantoccio riempito di paglia, in abiti da campagnolo. Il Corteo era preceduto da una fila interminabile di finti confratelli, che suonavano grosse campane di vacche, diversi preti con la croce e l’aspersorio, altri con torce e “lampieri” accesi. Dietro il feretro procedeva Rosa, la moglie, circondata di prefiche sghignazzanti e dai familiari del povero Carnevale, che normalmente veniva chiamato Giovanni, in ricordo di un tale Giovanni Carnevale, vissuto nella prima metà dell’Ottocento, animatore, delle prime manifestazioni del Carnevale
Resta comunque, valida anche in questo caso l’interpretazione che attribuisce all’uccisione di Carnevale l’obiettivo di eliminare e purificare il peccato e il male. I due rituali si sceneggiavano processionalmente e mai sul palco, appunto perché c’era la necessità di coinvolgere quanta più gente possibile durante il percorso.
Il mito del “paese della cuccagna” ha origini antichissime nella fantasia popolare; la raffigurazione fantastica del regno del Bengodi,
” i laghi di grasso colato, le montagne di formaggio, i fiumi di latte o di vino, le case di cacio pecorino e altro ben di Dio”
Un regno favoloso dove la natura si compiacque elargire i suoi tesori, senza la minima fatica dell’uomo. Un mito certamente vivo sino all’età moderna nel ‘700 i re di Napoli, ogni anno, facevano costruire in piazza un finto paese della cuccagna, tutto di legno, con case, giardini, botteghe di commestibili, fontane da cui zampillava vino, mentre agnelli e maiali pascolavano fra le case. Il popolo ad un segnale del re, si lanciava a saccheggiare la fantastica costruzione, vivendo in un attimo di illusorio benessere.
A Massafra “l’albero della cuccagna”, un palo di legno infisso al suolo, lungo dai sei metri e spesso venti centimetri circa, unto di grasso, in cima al quale veniva fissata una ruota di legno che sosteneva i premi: un agnello, un tacchino, due gallucci, alcuni pacchi di pasta, fette di lardo salato o ventresca, corde di salsiccia fresca o insaccata, caciocavalli e diversi fiaschi di vino..
I Giovedì del Carnevale
Il giovedì dei cornuti si festeggiava con un lauto pranzo nell’ambito familiare, con una scorpacciata di “salsizze arrestute” salsicce arrostite sulla brace e vino in quantità.
Era consuetudine tra monaci e preti festeggiare il proprio giovedì, scambiandosi un cordiale invito a pranzo, che nel periodo di Carnevale era succulento e appetitoso.
Il Carnevale all’epoca iniziava dal 17 gennaio con un ciclo di festini che venivano organizzati, soprattutto le domeniche e i giovedì. Questi ultimi avevano un nome ed un significato particolare: “giovedì dei monaci” “giovedì dei preti” “giovedì dei cornuti” e per ultimo il “giovedì dei pazzi”.
Nel “giovedì dei pazzi” la festa esplodeva in tutta la sua magnificenza nelle piazze, nelle strade, nei vicoli oscuri. I giovani rientravano con qualche ora di anticipo dal lavoro, si travestivano e si mascheravano alla meglio, imitando coppie di sposi, gobbi, sciancati. Il porta-maschere ed altri amici facevano corona cantando: “Abballe Ciccantuòne, senza cante e senza suòne“.
Cronache Moderne di Carnevale
Tra il 1870 e 1920 il Carnevale massafrese veniva caratterizzato nel pomeriggio del martedì grasso dalla battaglia dei coriandoli.
La battaglia dei coriandoli tra signori, in carrozza o calesse, e borghesi, a piedi.
I signori tiravano i fagioli, i borghesi sferravano gli aranci, i limoni, i mazzi d’insalata e quant’altra verdura era esposta sulle panche degli erbivendoli, che, dopo, venivano indennizzati ad usura.
Nel 1950 nacque l’idea di ridare al paese anche la festa del Carnevale. In verità, il 21 febbraio, ultima domenica di Carnevale, di maschere se ne videro poche, forse perchè la gente era ancora restia e impacciata a questi divertimenti organizzati.
Cencio Vinci e Lello di Bello si travestirono da vecchi congiunti in camicia da notte: l’uno con il vasetto da notte e l’altro con la bugia. Divertivano enormemente quanto mimavano l’atto di voler orinare in pubblico.
Fra i partecipanti del corso mascherato della quinta edizione nel ‘57 il complesso “Clown in città” realizzato da Mimino Benagiano che divertì moltissimo per le sue caratteristiche trovate.
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